Dagli “inni Omerici“, o “inni minori” o semplicemente “Inni“, l’inno d’apertura dedicato ad Artemide; un opera risalente al VII-VI secolo a.C, scritta nella stesso dialetto dell’iliade e dell’odissea, quinti attribuita ad Omero fin dai tempi dello storico Ateniese Tucidide.
AD ARTÈMIDE
La Dea canto ch’è vaga di strepiti, Artèmide, pura
vergine, ch’ama i cervi colpire, dall’aurëo strale,
vaga di frecce, sorella d’Apollo dall’aurea spada,
che sovra i monti ombrosi, sui picchi battuti dal vento,
l’arco suo, tutto d’oro, lanciandosi a caccia, protende,
e le saette avventa dogliose: ne treman le cime
dei monti eccelse, tutta risuona la cupa foresta,
all’urlo delle fiere, con rombi tremendi, la terra
inorridisce e il mare pescoso. Con cuore gagliardo
ella si aggira qua e là, delle fiere le stirpi distrugge.
Quando è poi stanca di fiere scovate, di frecce lanciate,
rallenta, paga omai la sua brama, la corda dell’arco,
e nella casa grande si reca del caro fratello,
di Febo Apollo, fra la gente di Delfi opulenta,
dove carole belle di Càriti e Ninfe compone.
Appende quivi l’arco ricurvo e le frecce, le membra
cinge di vesti belle, conduce, precede le danze.
E l’immortale voce dispiegano quelle, e Latona
cantano. Dea dal vago mallèolo, e quali figliuoli
ebbe, mercè dei Numi, che avanzano tutti in ogni opra.
Salve, figliuola di Giove, di Lato dal fulgido crine.
Io mi ricorderò d’esaltarti in un canto novello.